Con la recente sentenza n. 4871 del 24 febbraio 2020, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di controllo a distanza, come disciplinato dall’art. 4 L. n. 300/1970 e successivamente modificato dall’art. 23 D.lgs. n. 151/2019.

Nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha confermato in particolare la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato alla dipendente di un Istituto di credito, per avere ella effettuato interrogazioni su conti corrente non giustificate da ragioni di servizio. Ciò, sul presupposto che la datrice di lavoro aveva tempestivamente assolto all’obbligo di informazione previsto dall’art. 4 comma 3 Legge n. 300/1970, come sostituito dall’art. 23 D.lgs. n. 151/2015, il quale prevede l’utilizzabilità “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro,” delle informazioni raccolte ai sensi dei precedenti commi 1 e 2, purché sia fornita idonea notizia al lavoratore delle modalità di uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nel rispetto di quanto previsto dal Codice in materia di protezione dei dati personali.

In ottemperanza a quanto disposto dal Legislatore, la Suprema Corte ha individuato in tale informativa il contemperamento tra la privacy e le esigenze aziendali, da un lato, e gli obblighi gravanti sul lavoratore e il potere gerarchico, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, dall’altro lato, atteso che solo a fronte di tale informativa è ammesso il controllo a distanza, il quale chiaramente deve restare proporzionato e non essere invasivo e riguardare beni aziendali.

Sul punto preme precisare che anche in assenza dell’accordo individuale con lo smart worker, attualmente non previsto dalla normativa di emergenza, grava in capo al datore di lavoro l’obbligo di tale informativa al dipendente.

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