L’indennità spettante all’agente in caso di risoluzione del contratto. Il rapporto tra l’art. 1751 c.c. e la contrattazione collettiva: l’attualità della sentenza De Zotti nelle più recenti pronunce della Corte di Cassazione
29.04.20251. Premessa: la sentenza De Zotti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (23 marzo 2006, C-465/04) e l’interpretazione degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653/CEE.
Sono trascorsi quasi 20 anni dalla sentenza con cui la Corte di Giustizia è stata chiamata ad esprimersi nel caso De Zotti c. Honyvem Informazioni Commerciali s.r.l., rispondendo a due questioni pregiudiziali avanzate dalla Corte di Cassazione in punto di indennità dovuta all’agente a seguito del recesso contrattuale da parte del preponente. All’epoca la decisione aveva rappresentato una delle prime pronunce in materia, posto che gli innovativi artt. 17 e 19 della direttiva 86/653/CEE (“relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti”) avevano trovato definitiva attuazione non molto tempo prima: l’art. 1751 c.c. era infatti stato riformulato una prima volta con il D. Lgs. 303/1990 e, poi, con il D. Lgs. 65/1999.
Per quanto nota, ai fini del presente contributo si ritiene opportuno richiamare i passaggi principali della pronuncia.
La controversia era stata instaurata dall’agente Mariella De Zotti nei confronti della proponente, la Honyvem Informazioni Commerciali S.r.l., in seguito alla risoluzione, da parte di quest’ultima, del contratto d’agenzia. La società, infatti, aveva quantificato l’indennità di fine rapporto nella somma di L. 78.880.276 secondo i criteri indicati nell’accordo economico collettivo, mentre l’agente riteneva dovesse applicarsi l’art. 1751 c.c., in virtù del quale l’importo dovuto sarebbe stato pari a L. 181.889.420.
Dopo l’accoglimento delle domande attoree da parte dei giudici di secondo grado, la Honyvem aveva presentato ricorso in Cassazione, assumendo che l’art. 1751 c.c. (riformulato secondo i dettami di cui agli artt. 17 e 19 della direttiva comunitaria) permettesse il rinvio all’autonomia delle parti e, di conseguenza, l’applicabilità degli accordi economici collettivi, ove – secondo una valutazione ex ante – questi avessero carattere più favorevole per l’agente; nello specifico, secondo la ricorrente tale carattere favorevole era dato dal fatto che l’accordo collettivo garantiva in ogni caso (i.e. a prescindere dalla sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1751 c.c.) il riconoscimento di un’indennità per l’agente alla cessazione del rapporto.
In assenza di un orientamento unanime sul punto, la Corte di Cassazione aveva sottoposto alla Corte di Giustizia due questioni pregiudiziali, vertenti sull’interpretazione degli artt. 17 e 19 della direttiva.
1.1. Gli articoli 17 e 19 della direttiva 86/653/CEE e il rapporto tra la disciplina legale e gli accordi collettivi nell’interpretazione della Corte di Giustizia.
I Giudici di Lussemburgo, richiamando i considerando della direttiva, avevano anzitutto ricordato che uno degli scopi della medesima era proprio quello di tutelare gli agenti commerciali, in quanto soggetti deboli, nelle loro relazioni con i preponenti. Con l’effetto che questo ha portato anche alla previsione di una disciplina inderogabile in senso sfavorevole all’agente (artt. 17 e 19).
In ragione di ciò, la Corte aveva chiarito che una diversa quantificazione dell’indennità in base ad un accordo avente origine privata (quale quello collettivo) può essere accettata solo se non più sfavorevole all’agente commerciale, ossia se prevede “un’indennità superiore o almeno pari a quella che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 17 della direttiva”.
Nel rispondere al secondo quesito, si era poi precisato che, sulla base dell’art. 17, par. 2 della direttiva, il calcolo dell’indennità di cessazione del rapporto non deve essere effettuato in maniera analitica, essendo sempre ammessa – a seconda delle situazioni – la possibilità di adottare come riferimento il criterio dell’equità.
Data la notevole diffusione dei contratti d’agenzia, non sono mancati recenti arresti della giurisprudenza nazionale, che continua a contribuire alla formazione di un quadro giurisprudenziale sul punto, mantenendo quale riferimento proprio la sentenza De Zotti.
2. La sentenza n. 3713 del 09.02.2024. Sui requisiti di cui all’art. 1751 c.c. e il criterio dell’equità.
Con la sentenza citata, la Corte di Cassazione è stata chiamata ad esprimersi in ordine ai presupposti che, ai sensi dell’art. 1751 c.c., devono sussistere per il riconoscimento dell’indennità di fine rapporto. Nella specie, la preponente lamentava un accertamento non sufficientemente rigoroso da parte del giudice di merito in ordine alla loro sussistenza, in particolar modo per quanto concerne l’incremento del numero di clienti per effetto dell’opera dell’agente e il permanere dei vantaggi economici anche dopo la cessazione del rapporto, peraltro in assenza di un confronto tra i fatturati precedenti e successivi alla risoluzione del contratto.
Nel richiamare il contenuto della norma in questione, la Corte ha ricordato che l’indennità ex art. 1751 c.c. spetta all’agente se sussistono cumulativamente due condizioni: a) l’aver procurato nuovi clienti al preponente o l’averne sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti; b) se il preponente riceve ancora, dopo la cessazione del rapporto, “sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti”. Inoltre, ai fini della personalizzazione del quantum, il giudice è chiamato a stabilire se l’indennità sia equa, valutando le sole “circostanze del caso”.
Ove ritenuti sussistenti tali presupposti, il giudicante sarà poi chiamato a determinare l’indennità spettante all’agente, fermo restante il limite massimo di cui al co. 3, pari alla media annuale delle retribuzioni riscosse negli ultimi cinque anni.
Riepilogati così i riferimenti principali in materia, la Corte ha ritenuto corretto il percorso espositivo dei giudici di merito, i quali hanno riconosciuto il diritto dell’agente al pagamento dell’indennità basandosi sul fatto che lo stesso avesse creato dal nulla una ricca rete di clientela in un mercato ove la preponente era in precedenza assente, sviluppando (anche se in soli 6 anni) il mercato in maniera proficua, tanto che il fatturato era rimasto notevole anche dopo lo scioglimento del rapporto.
Inoltre, pur ritenendo inammissibile il terzo motivo di ricorso vertente sull’applicabilità dell’Accordo economico collettivo, la Corte – richiamando la sentenza De Zotti – ha ricordato che, ove sussistano i presupposti per riconoscere l’indennità meritocratica ai sensi dell’art. 1751 c.c., un’eventuale applicazione degli accordi collettivi in ordine al metodo di quantificazione dell’indennità, esige una valutazione ex post del risultato, per stabilire se questo sia concretamente più favorevole rispetto ad un’indennità determinata secondo i dettami di cui all’art. 1751 c.c.
2.1. La sentenza n. 6411 dell’11.03.2025. Quando l’accordo economico collettivo è applicabile perché più favorevole per l’agente.
Ancor più di recente, la Cassazione si è pronunciata in una controversia in cui l’accordo economico collettivo è stato ritenuto applicabile perché più favorevole per l’agente.
Il caso specifico muoveva da un rapporto di agenzia sorto nel 1966 e conclusosi nel 2010, a valle del quale l’agente aveva richiesto il pagamento dell’indennità; i giudici di merito – ritenendo rilevante solo l’art. 1751 c.c. – avevano rigettato la domanda, in assenza della prova relativa al numero dei clienti che sarebbero stati stabilmente procacciati e ai conseguenti vantaggi economici per la preponente.
La Cassazione ha tuttavia rilevato come il rapporto d’agenzia fosse disciplinato da due contratti: il primo dd. 13.12.1966, il secondo del 30.09.1991. Se in punto di indennità di fine rapporto il primo negozio nulla diceva, in quello successivo le parti ne avevano escluso la debenza, precisando che le provvigioni e i corrispettivi spettanti all’agente sarebbero già stati comprensivi di tale voce; ad ogni modo, si stabiliva che, qualora in seguito fosse stato stipulato un accordo collettivo tra le associazioni di categoria, la disposizione contrattuale sarebbe divenuta inefficace ex nunc, con piena applicabilità del successivo accordo, anche in punto di regolamentazione dell’indennità di fine rapporto. Ciò detto, il 16 febbraio 2009 era stato stipulato un nuovo accordo collettivo, il quale – ai fini della determinazione in concreto della misura dell’indennità – statuiva che questa sarebbe stata composta da tre emolumenti, di cui due (l’indennità di risoluzione del rapporto e l’indennità suppletiva di cliente) prescindevano dalla sussistenza di un incremento della clientela e/o fatturato, presupposto richiesto unicamente per il riconoscimento del terzo emolumento (indennità meritocratica).
Ripercorsa la peculiarità della fattispecie, i giudici hanno richiamato ancora una volta i principi statuiti nella sentenza De Zotti, ricordando che occorre sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore; un tanto in quanto “la inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive”.
In considerazione di ciò, e accogliendo il ricorso dell’agente, i Giudici di Cassazione hanno affermato che la Corte d’Appello aveva errato nel ritenere rilevante il solo art. 1751 c.c. e nel non considerare l’accordo economico collettivo. Infatti, pur difettando i requisiti previsti dalla norma codicistica, non poteva escludersi a priori l’applicabilità di una disposizione (pur di origine privatistica) che nella specie riconosceva all’agente il pagamento di un’indennità minima, dovuta in ragione della mera cessazione del rapporto contrattuale, e a prescindere dall’incremento della clientela e/o degli affari della preponente.
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