Nel caso in esame, il lavoratore aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze di una società nel periodo dall’1.07.1975 al 30.06.2008, con mansioni di elettricista del Nucleo di Distribuzione ed operatore di mezzi speciali (escavatorista, gruista, trattorista, ecc.). Dopo avere ottenuto il riconoscimento dell’origine professionale della malattia sofferta (rachipatia artrosica con protusioni discali multiple a discreto impegno funzionale) da parte dell’INAIL, il lavoratore aveva adito le vie giudiziali per ottenere l’accertamento della responsabilità datoriale nella causazione della predetta malattia e il conseguente risarcimento dei danni biologici, morali, patrimoniali e non, ed esistenziali subiti.

Il Tribunale competente riconosceva in capo alla società la responsabilità nella causazione della patologia, cagionata “dall’essere stato addetto all’esecuzione di mansioni usuranti, comportanti la movimentazione dei carichi, all’esposizione a vibrazioni, a posture incongrue e ad eventi climatici senza che parte datoriale fornisse idonea tutela per i suddetti rischi, operasse una loro corretta valutazione e impartisse la formazione specifica a prevenirli”, condannando la società al risarcimento del danno differenziale.

La Corte d’Appello competente, per contro, rigettava le pretese del lavoratore, ritenendo che il lavoratore non avesse dimostrato “la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessaria ad evitare il danno. Solo ove tale prova fosse stata offerta sorgeva per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito; tale onere non era stato in concreto assolto”.

Il lavoratore presentava quindi ricorso in Cassazione, all’esito del quale la Suprema Corte, con la sentenza n. 7058 del 15.12.2021 / 03.03.2022, cassava la sentenza dei giudici dell’appello, riconfermando i diritti del lavoratore, motivando che “il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle c.d. innominate) esigibili in concreto. Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalle nome di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis: Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018, Cass. n. 14865/2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003)”.

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