Nel caso affrontato, la lavoratrice era stata licenziata all’esito di un procedimento disciplinare mediante cui le era stato contestato di avere creato una fittizia carta fedeltà (intestata ad una persona inesistente) e di averle utilizzata in più precisate occasioni “per acquisti effettuati da clienti in modo da ottenere un indebito accumulo di punti nonché uno stato di “Card Platinum”, così privando “i clienti stessi della possibilità di sottoscrivere la propria fidelity”: condotte realizzate dalla lavoratrice a danno e detrimento degli interessi della società e a suo proprio ed esclusivo vantaggio per interessi del tutto personali”. La sentenza della competente Corte d’Appello, che aveva confermato il giudizio della fase cautelare, aveva riconosciuto l’illegittimità dell’impugnato licenziamento, motivando che la contestazione disciplinare veniva smentita da una comprovata “modalità diffusa, almeno in due negozi in cui la (…) era stata addetta, di impiego della carta irregolare: modalità condivisa dalle responsabili delle filiali”, quale “uso diffuso circa una prassi diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali” (essendo stata la citata carta irregolare associata a vendite svolte anche da altre dipendenti e per entrambi i punti vendita cui la lavoratrice era stata adibita ed essendo circostanza nota ai responsabili dei negozi) e, pertanto, senza vantaggio personale della lavoratrice e nocumento degli interessi aziendali. Con l’ordinanza n. 35516 del 19 dicembre 2023, la Corte di Cassazione, ha confermato l’illegittimità dell’impugnato licenziamento per giusta causa perché, come correttamente ritenuto dal giudice di merito, la sussistenza di una prassi condivisa per l’acquisizione di clienti occasionali mediante l’utilizzo della citata carta fedeltà, faceva venire meno l’addebito contestato alla lavoratrice. In particolare, con riferimento alla nozione di giusta causa, la Suprema Corte ha ribadito, altresì, che “(…) il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. (…)”.

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