La richiesta di risarcimento del danno da mancato consenso informato, proposta da una paziente che si era sottoposta ad un intervento per cisti ovarica e che al termine dell’operazione, pur rivelatasi risolutiva della patologia, si era vista asportare l’utero, portava la Suprema Corte ad affrontare nuovamente il tema della natura del consenso informato e dei diritti da esso presidiati.

Negato, infatti, da parte delle Corti di merito il diritto al risarcimento del danno richiesto dalla paziente a causa della lesione alla propria libertà di autodeterminazione, sul presupposto che non era ravvisabile una lesione del diritto alla salute, che la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia e che l’intervento chirurgico era stato condotto con esito pienamente positivo dato che la paziente era completamente guarita, il processo giungeva in Cassazione.

Giudizio di legittimità, in cui la Corte di Cassazione – con sentenza n. 12205/2015 – rilevava come le Corti di merito non avessero identificato il bene presidiato dalla valida espressione del consenso informato e sottolineava come il beneficio tratto dall’esercizio di un intervento medico, non preceduto da acquisizione di consenso informato, in ipotesi risolutivo della patologia del paziente, non potesse compensare la perdita della possibilità per il paziente di non sottoporsi allo stesso, quest’ultima garantita e preservata dal diritto al consenso informato.”

La Corte finiva per ribadire quindi il principio per cui “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui occorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ma di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.

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