Lo Stato italiano si sta conformando – tramite sempre più lineari pronunzie della Suprema Corte di Cassazione, in linea con quanto regolamentato con Legge 107/2015 – ai dettami dell’Unione Europea in tema di reiterazione dei contratti a tempo determinato nel settore scuola.

Infatti chiare sono state –ante Legge 107/15 – le indicazioni contenute nella sentenza c.d. Mascolo, rectius nella sentenza del 26 novembre 2014, pronunciata nell’ambito delle cause riunite C-22/13E e da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, nella quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata chiamata a rendere l’interpretazione delle clausole 4 e 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, in relazione alla qualificazione dei contratti a termine nel settore scuola dello Stato italiano, stabilendo il seguente principio: “la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a pervenire ed a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Sul punto si segnala la sentenza n. 22552 del 7 novembre 2016, nell’ambito della quale la Sezione Lavoro istituita in seno alla Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che nel settore scolastico risulta illegittima la reiterazione dei contratti a termine su posti di organico di diritto ex art. 4 co. 1 ed 11 della Legge n. 124 del 1999 – stipulati dal 10 luglio 2001 fino alla Legge n. 107/2015 – per una durata complessiva anche non continuativa, superiore a trentasei (36) mesi, tranne che per i posti di supplenza su organico di fatto e per supplenze temporanee, salvo che il lavoratore non provi che vi sia stato un uso improprio o distorto del potere di organizzazione del servizio scolastico. Fermo questo principio, la Suprema Corte a Sezioni Unite ha sancito che costituisce misura sanzionatoria proporzionata, effettiva, sufficiente energica ed idonea contro l’illegittima reiterazione dei contratti a tempo determinato il sistema di stabilizzazione di cui alla Legge n. 107/2015, nonché il sistema di stabilizzazione previgente alla Legge n. 107/2015, attraverso precedenti strumenti concorsuali o selettivi diversi da quelli contenuti nella citata Legge n. 107/15. Sul punto la Suprema Corte ha altresì precisato – riconfermando quanto già riconosciuto nella sentenza n. 5072/2016 emessa dalle Sezioni Unite – che l’astratta chance di stabilizzazione, che può ravvisarsi nei casi in cui il conseguimento del posto di ruolo non è certo ovvero non è conseguibile in tempi ravvicinati, intendendo per tali quelli compresi tra l’entrata in vigore della Legge n. 107/2015 ed il totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, fa sì che al lavoratore possa essere riconosciuto – in mancanza dell’immissione in servizio – il riconoscimento del c.d. danno presunto ex art. 32 co. 5 Legge n. 183/2010, così come modificato dal D.lgs. n. 81/2015. Il Supremo Collegio ha precisato, da ultimo, che l’avvenuta immissione in ruolo non esclude il risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dall’immissione in ruolo stessa, precisando che l’onere della prova – di difficile assolvimento – dei predetti ulteriori e diversi danni, grava sul lavoratore.

<< torna a tutte le notizie