Con la sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, la Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito, che avevano ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore portatore di handicap per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, applicando le tutele previste dall’art. 18 comma 4 Legge 300/70. L’illegittimità del licenziamento è stata ravvisata nella violazione dell’obbligo previsto dall’art. 3 comma 3 bis Dlgs. 216/2003, norma di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/70/CE, che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo rafforzato di predisporre tutti gli “accomodamenti ragionevoli” per evitare il licenziamento in tali circostanze. Premesso che, secondo il diritto europeo (CGUE sentenze 11.04.2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11; 18.04.2014, Z., C-363/12; 18.12.2014, FOA, C-353/13; 1.12.2016, Mo. Da., C-395/15) la nozione di handicap consiste in qualunque “limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori”, nozione cui il giudice di legittimità fa espresso richiamo, con la pronuncia in parola la Suprema Corte, in ragione della sua funzione nomofilattica, ha voluto definire il contenuto dei precitati “accomodamenti ragionevoli”, chiarendo quanto segue: “il legislatore ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa, nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole dell’impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto. Interprete inteso, prima di tutto, come operatore che deve conformare la propria condotta al parametro normativo, al fine di renderla legittima; interprete poi, laddove eventualmente sorga contesa, come giudice che è chiamato a dirimerla. Per entrambi questa Corte è chiamata a fornire criteri di giudizio anche nei casi in cui il contenuto indeterminato della norma è destinato a misurarsi con la variabilità del reale, onde comunque orientare l’attività degli interpreti. L’attività di ascrizione di significato alla norma non può che muovere dal dato testuale. Il termine “accomodamento”, che nella lingua italiana richiama propriamente l’idea dell’accordo ovvero dell’adeguamento o della regolazione di uno strumento meccanico, è in realtà la trasposizione lessicale pedissequa dall’inglese “accomodation”, presente nella Convenzione ONU del 2006, alla quale esplicitamente rinvia il comma 3 bis dell’art. 3 più volte citato per la definizione del termine, e presente anche nella versione inglese dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, sebbene tradotto in quella italiana con “soluzioni ragionevoli”. Nell’art. 2 della Convenzione per “accomodamenti” si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati” che si debbano adottare “per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza ‘ con altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. Parallelamente l’art. 5 della direttiva dell’Unione europea in materia, cui occorre fare riferimento in chiave di interpretazione conforme quale aspetto dell’interpretazione sistematica della disciplina in esame, parla di “provvedimenti appropriati” del datore di lavoro, “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo. Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa. Vale rimarcare che l’adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento. A riprova, il considerando 20 della direttiva elenca, in via esemplificativa e sicuramente non tassativa, quali “misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap”, la sistemazione dei locali, l’adattare ‘le attrezzature, il regolare i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, il fornire mezzi di formazione o di inquadramento. La Corte di Giustizia statuisce che il concetto di “soluzioni ragionevoli” deve essere inteso nel senso che si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (sentenze dell’Il aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punto 54; del 4 luglio 2013, Commissione/Italia, C-312/11, punto 59; dell’Il settembre 2019, DW, C-397/18, punto 64) e la prima pronuncia individua quale possibile adattamento ragionevole la riduzione dell’orario di lavoro. Chiarito con esempi non esaustivi il vasto raggio degli accomodamenti ipotizzabili, un limite espresso all’adozione di essi è rinvenibile nella definizione della Convenzione ONU del 2006 – cui rinvia anche la norma dell’ordinamento interno – laddove si specifica che tale accomodamento non deve imporre “un onere sproporzionato o eccessivo”. L’art. 5 della direttiva europea in materia conferma che il datore di lavoro, è obbligato, salvo che i provvedimenti appropriati richiedano “un onere finanziario sproporzionato”, specificando poi che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”. Il considerando 21 chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. Detto limite economico è stato già sottolineato da questa Corte (Cass. n. 27243/2018 cit.), richiamando Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessivi”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epoca sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cost. n. 356 del 1993). Al limite espresso della “sproporzione” del costo si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”. Limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”. Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti. Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008). In particolare, le Sezioni unite civili (sent. n. 4570 del 1996) hanno già da tempo evidenziato che “la verifica di ragionevolezza è stata sempre imposta dalla giurisprudenza di questa Corte in tutti i casi in cui si debba stabilire una comparazione dei diritti e delle aspettative in materia di lavoro (concorsi, promozioni, licenziamenti collettivi ecc.)” ed “il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede”. Esse “agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva” (successive conf.: Cass. n. 8296 del 2001; Cass.:n. 7752 del 2003; Cass. n. 11429 del 2006; Cass. n. 14322 del 2016). Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU. nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, – come nella specie – che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo. Stante la natura indeterminata della clausola di “ragionevolezza” non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l’accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni. Non a caso anche l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”. Tuttavia, dalla connotazione della ragionevolezza come espressione dei più ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali si possono trarre indicazioni metodologiche utili per orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo. Detta collocazione sistematica consente di fare capo a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 1460,5 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669 del 2007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020). Inoltre, la collocazione valorizza il piano esecutivo dell’adempimento dell’obbligo, in una ipotesi inevitabilmente caratterizzata da spazi di indeterminatezza e da margini liberi di azione, in cui il criterio di qualificazione dell’agire ragionevole, quale modello di comportamento a misura d’uomo, diventa essenziale regola di governo della discrezionalità in executivis. Infine perché la funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse altrui, pongono metodologicamente al centro dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento. Così pure nel caso degli accomodamenti occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive … il mantenimento dell’occupazione … di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri lavoratori, sicché, in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di costoro. All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale 12 formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”)”.

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