Nell’ambito della pronuncia n. 10834 del 17.02.2015 / 26.05.2015, la Corte di Cassazione svolge un’interessante riflessione sul tema dell’onere della prova in materia di licenziamento di natura ritorsiva o per rappresaglia.

Come noto, l’art. 5 della Legge 15 luglio 1966 n. 604, sui licenziamenti individuali, pone testualmente a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo dell’atto di recesso, mentre in materia di licenziamento discriminatorio e ritorsivo l’onere della prova grava invece sul lavoratore. Detto onere non è tuttavia di facile assolvimento posto che il lavoratore, per attribuire al licenziamento il connotato di un’ingiusta vendetta, deve dimostrare la sussistenza di un’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), e che la ritorsione sia stata l’unico motivo determinante il licenziamento.

Il caso in esame pone, nello specifico, la questione di un lavoratore che ha svolto azioni sindacali in difesa degli autisti dipendenti di una ditta, licenziato poi per giusta causa non in ragione di un’unica condotta, bensì in conseguenza di un cumulo di sanzioni applicate tutte in rapida successione, senza precedenti disciplinari e per comportamenti, isolatamente intesi, non sufficienti a legittimare il recesso.

Adita con ricorso la Suprema Corte, il datore di lavoro eccepiva che la Corte territoriale avrebbe dovuto seguire il seguente processo logico-giuridico: prima valutare la sussistenza della giusta causa di licenziamento e soltanto qualora la giusta causa fosse stata esclusa, si sarebbe potuto procedere alla verifica della natura ritorsiva del licenziamento. Eccezione, la quale veniva tuttavia rigettata, sul presupposto che sarebbe sbagliato ritenere, dal punto di vista logico-giuridico, che debba essere prima accertata la sussistenza della giusta causa di licenziamento, come prospettata dal datore di lavoro, senza considerare prioritariamente il contesto lavorativo in cui le sanzioni disciplinari, poste alla base del recesso, sono state irrogate al lavoratore, poiché “laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il Giudice nazionale non possa fare a meno di tenerne conto sia in base all’art. 3 Cost. sia in considerazione degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dall’introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997”, con la conseguenza che “se non tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) illegittimi sono discriminatori, tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) discriminatori sono illegittimi, come risulta confermato anche dal particolare regime loro riservato dalla Legge n. 92 del 2012 e oggi dal Dlgs. 4 marzo 2015 n. 23”.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha in definitiva ribadito la corretta premessa logica da cui era partita la Corte territoriale che, congruamente, ha prima valutato la sussistenza dell’ingiusta rappresaglia ed una volta provata la natura persecutoria-vendicativa- discriminatoria della condotta complessiva del datore di lavoro – estrinsecatasi mediante plurime sanzioni e poi mediante il licenziamento – ha dichiarato tout court l’illegittimità del licenziamento intimato.

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