Il 25 giugno 2024 la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pronunciato una sentenza di enorme rilevanza non solo per l’effetto che questa avrà sul piano nazionale e sulla “questione ILVA” ma anche per le ripercussioni future sugli impianti industriali europei.

Si anticipa che in questa sede non si entrerà nel merito dell’annosa vertenza sullo stabilimento cd. ILVA sito a Taranto, dei procedimenti civili e penali di cui è stata parte o del dettaglio delle norme speciali introdotte negli anni a tutela della produttività dell’impianto, ma ci si limiterà ad analizzare la decisione della Corte di Giustizia, in relazione ai principi esposti in merito alle esigenze di tutela della salute ed ai corrispondenti obblighi dello Stato.

Il procedimento de quo è stato introdotto con un’azione collettiva davanti al Tribunale di Milano da alcuni cittadini di Taranto per ottenere ex art. 840 sexiesdecies c.p.c., in via di inibitoria, la protezione di diritti omogenei della popolazione prossima allo stabilimento ILVA, ritenendosi lesi dall’attività produttiva dell’acciaieria di proprietà di ILVA S.p.A. in a.s. e gestita da Acciaierie di Italia S.p.A. controllata da Acciaierie d’Italia Holding s.p.a.

Con il ricorso, le parti hanno richiesto al Tribunale – per quanto di interesse – di ordinare ad ILVA la chiusura dell’area a caldo degli impianti o la cessazione delle relative attività assegnando un termine massimo di 60 giorni, idoneo allo svolgimento dei lavori in sicurezza o, in subordine, ordinare la sospensione dell’attività produttiva sino alla completa attuazione delle prescrizioni AIA recepite dal piano ambientale di cui al DPCM 2017 ed, in ogni caso, ordinare ai resistenti di predisporre immediatamente un piano industriale che preveda l’abbattimento di non meno del 50% delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2026 ovvero di ordinare alle parti l’adozione di misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate.

Il Tribunale di Milano, alla luce del contenuto della direttiva 2010/75/UE, della normativa nazionale di cui al d.lgs. 152/2006 (artt. 5, 19, 22, 23, 29 quater e 29 decies), nonché delle norme speciali applicabili all’ILVA, ha ritenuto opportuno sottoporre alla Corte di Giustizia tre domande pregiudiziali che si riformulano nei termini che seguono.

Con il primo quesito, il Giudice chiede se la direttiva (artt. 3 p. 2), 11, 12 e 23), anche alla luce del principio di precauzione e protezione della salute umana di cui all’articolo 191 TFUE, possa essere interpretata nel senso che è compatibile una legge nazionale che prevede che Valutazione di Danno Sanitario (VDS) costituisca atto estraneo alla procedura di rilascio e riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), anche nel caso in cui il rischio sanitario da inquinamento risulti inaccettabile o se, invece, la VDS debba costituire atto interno al procedimento di rilascio e riesame dell’autorizzazione.

Il Giudice del rinvio sul punto precisa che il diritto italiano non prevede che la valutazione del danno sanitario venga redatta all’interno del procedimento di rilascio o riesame dell’autorizzazione integrata ambientale, né è previsto che, quando una tale valutazione dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per una popolazione significativa interessata da emissioni inquinanti, tale autorizzazione debba essere rivista entro tempi brevi e certi.

Con il secondo quesito, il Giudice chiede se la direttiva (artt. 3 p. 2), 11, 14, 15, 18 e 21) possa essere interpretata nel senso che è compatibile una legge nazionale che prevede che l’autorizzazione integrata ambientale (il provvedimento amministrativo autorizzativo) debba includere soltanto sostanze inquinanti previste a priori in ragione della natura e tipologia dell’attività industriale svolta sia in contrasto con la direttiva 2010/75 o se, invece, debba considerare sempre tutte le sostanze oggetto di emissioni che siano scientificamente note come nocive e originate dall’impianto oggetto di valutazione.

Sul secondo quesito il Giudice del rinvio rileva che la disciplina nazionale, con norme speciali specificatamente introdotte, ha consentito di procedere al riesame dell’autorizzazione senza considerare le sostanze inquinanti rilevate in rapporti elaborati dalle autorità sanitarie e i loro effetti nocivi sulla popolazione di Taranto. In sostanza, non è attualmente previsto che i procedimenti di riesame tengano conto di tutti gli inquinanti concretamente emessi dallo stabilimento e non solo di quelli previsti a priori in ragione della natura dell’impianto.

Con il terzo quesito, il Giudice chiede se la direttiva (artt. 3 pp. 2) e 25), 11, 14, 16 e 21) possa essere interpretata nel senso che uno Stato membro, in presenza di un’attività industriale recante pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana, possa differire il termine concesso al gestore per adeguare l’attività industriale all’autorizzazione concessa, realizzando le misure ed attività di tutela ambientale e sanitaria ivi previste, per circa sette anni e mezzo dal termine fissato inizialmente e per una durata complessiva di undici anni.

Sul punto il Giudice rileva che almeno l’80% delle prescrizioni dell’autorizzazione del 2012 avrebbero dovuto essere attuate entro il 2015, termine da allora sempre differito in costanza dello svolgimento di attività industriale, in attesa della realizzazione delle opere che avrebbero teoricamente reso l’attività siderurgica dello stabilimento Ilva sicura per la salute delle persone residenti nei pressi di quest’ultimo.

In relazione alla prima questione, la Corte, precisa che le norme relative alle autorizzazioni all’esercizio di attività industriali vanno necessariamente lette alla luce degli articoli 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE che stabiliscono che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana, nonché che un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.

Prosegue rilevando che, per gli impianti come ILVA soggetti al rilascio di apposita autorizzazione, il relativo riesame deve venire disposto nei casi in cui l’inquinamento provocato dall’installazione interessata è “tale da rendere necessaria la revisione dei valori limite di emissione esistenti nell’autorizzazione”. Parimenti, la periodicità di detto riesame deve essere adeguata alla portata e natura dell’impianto, con riferimento anche alle specifiche caratteristiche locali del sito in cui si svolge l’attività, come nel caso in cui si trovi in prossimità di abitazioni.

La nozione di inquinamento richiamata è definita dall’art. 3 punto 2 della direttiva e da intendersi come riguardante “l’introduzione nell’aria, nell’acqua o nel terreno di sostanze che potrebbero nuocere tanto alla salute umana quanto alla qualità dell’ambiente” e ne consegue che “ai fini dell’applicazione della direttiva 2010/75, detta nozione include i danni arrecati, o che potrebbero esserlo, tanto all’ambiente quanto alla salute umana.”

Infatti, le ispezioni ambientali di cui all’art. 23 par. 4 devono, per quanto riguarda la valutazione sistematica dei rischi ambientali, basarsi sugli impatti potenziali e reali delle installazioni interessate sulla salute umana e sull’ambiente e, pertanto, tale valutazione deve necessariamente costituire atto interno ai procedimenti di rilascio e riesame di un’autorizzazione. E proprio su studi scientifici che denunciano gli effetti inquinanti delle emissioni di tale stabilimento tanto sull’ambiente quanto sulla salute delle persone si era basata anche la Corte EDU (Corte EDU 24.01.2019 Cordella e a. c. Italia) nella decisione in cui ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della CEDU in relazione all’inquinamento provocato da ILVA.

Sulla prima questione la Corte conclude affermando che “Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione che la direttiva 2010/75, letta alla luce dell’articolo191 TFUE e degli articoli 35 e 37 della Carta, deve essere interpretata nel senso che gli Stati membri sono tenuti a prevedere che una previa valutazione degli impatti dell’attività dell’installazione interessata tanto sull’ambiente quanto sulla salute umana costituisca atto interno ai procedimenti di rilascio e riesame di un’autorizzazione all’esercizio di una tale installazione ai sensi di detta direttiva.”

Con la seconda questione la Corte affronta il quesito inerente alla necessità per l’autorità competente di considerare o meno, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili per la tipologia di attività industriale di cui trattasi, tutte quelle oggetto di emissioni che siano scientificamente note come nocive e derivanti dall’attività in concreto esercitata dall’installazione interessata, anche se non valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale.

È comprovato che nel caso di specie esistessero rapporti che hanno evidenziato un rischio residuo non accettabile per la salute connesso a talune emissioni inquinanti provenienti dallo stabilimento ILVA e non oggetto di valutazione in occasione delle autorizzazioni integrate ambientali.

La Corte riconosce l’esistenza di un margine di discrezionalità in capo agli Stati Membri sulla determinazione delle sostanze inquinanti oggetto di valori limite ai fini del rilascio delle autorizzazioni da parte delle autorità nazionali competenti, ma non esita a richiamare l’art. 14 della Direttiva nella parte in cui prevede che l’autorizzazione all’esercizio dell’attività fissi dei valori limite di emissione, non solo per le sostanze inquinanti elencate nell’allegato II della direttiva, ma anche per le «altre» sostanze inquinanti che possono essere emesse «in quantità significativa, in considerazione della loro natura e delle loro potenzialità di trasferimento dell’inquinamento da un elemento ambientale all’altro».

Pertanto, in accoglimento anche delle conclusioni dell’avvocato generale, la Corte risponde alla seconda questione affermando che “la direttiva 2010/75 deve essere interpretata nel senso che, ai fini del rilascio o del riesame di un’autorizzazione all’esercizio di un’installazione ai sensi di tale direttiva, l’autorità competente deve considerare, oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione”.

Se le prime due risposte imporranno un diverso approccio al rilascio di autorizzazioni e relativi riesami per l’esercizio di determinate attività industriali, l’ultima, attraverso la decisione che adotterà il Giudice del rinvio, determinerà conseguenze immediate sulla prosecuzione delle attività di ILVA.

Infatti, la terza questione attiene alla compatibilità con la direttiva della normativa nazionale che ha prorogato ripetutamente il termine concesso al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione, pur in presenza di pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute.

La Corte di Giustizia richiama in primo luogo l’art. 8 della direttiva che impone che, in violazione delle condizioni di autorizzazione all’esercizio di un’installazione, gli Stati devono adottare le misure necessarie per garantire immediatamente il loro rispetto, tra le quali, la sospensione dell’esercizio dell’attività nel caso in cui la violazione presenti un pericolo immediato per la salute umana o minacci di provocare ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente. La Corte aggiunge che il fatto che ILVA costituisca, come dedotto dal Governo Italiano, un’importante fonte di occupazione per l’area e che le proroghe derivino da una ponderazione degli interessi in gioco, impone al Giudice del rinvio di valutare se le norme speciali adottate nei confronti dello stabilimento abbiano avuto l’effetto di differire eccessivamente l’attuazione delle misure necessarie per conformarsi all’autorizzazione. Infatti, il considerando 43 prevede che le disposizioni della direttiva si applichino anche agli impianti esistenti (come ILVA) dopo un determinato periodo di tempo “per concedere un tempo sufficiente” a dette installazioni esistenti per adeguarsi alle nuove prescrizioni.

Pertanto, alla terza questione la Corte risponde “che la direttiva 2010/75 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale ai sensi della quale il termine concesso al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione è stato oggetto di ripetute proroghe, sebbene siano stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana. Qualora l’attività dell’installazione interessata presenti tali pericoli, l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, di detta direttiva esige, in ogni caso, che l’esercizio di tale installazione sia sospeso.”

Rimane a questo punto da attendere per vedere come questa decisione della Corte di Giustizia verrà interpretata dal Tribunale di Milano nel procedimento de quo e come la medesima inciderà sull’attività di ulteriori installazioni o ampi complessi industriali nell’intero territorio dell’Unione Europea.

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