Nell’ordinanza n. 20800 del 23.05.2023, pubblicata il 18.07.2023, la Corte di Cassazione affronta il tema della retroversione degli utili prevista dall’art.125 c.p.i. nel caso di violazione di un diritto di proprietà industriale, offrendo interessanti spunti in ordine alla natura del rimedio ed alla ripartizione dell’onere della prova.

Dopo avere ricordato preliminarmente che la norma in parola riconosce al danneggiato, oltre al diritto al risarcimento del danno secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., il diritto alla retroversione (i.e. restituzione) degli utili realizzati dall’autore della violazione, la Suprema Corte tratta, infatti, le tematiche sopra menzionate, osservando quanto segue.

Quanto alla natura del rimedio, la Corte afferma che “il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno (che, si ricorda, può sempre essere demandata dal danneggiato in aggiunta al risarcimento del danno emergente ma in alternativa al risarcimento del danno da lucro cessante, n.d.r.) allontana il risarcimento dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente ad una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.

A tale conclusione il Collegio perviene dopo aver precisato:

in primo luogo, che “il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo, deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio.

In secondo luogo, che occorre accogliere l’esigenza indagata da autorevole dottrina secondo cui “occorre impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.

Dopo tali premesse sulla natura dell’istituto, l’ordinanza affronta poi anche la questione attinente alla ripartizione dell’onere della prova, ricordando che “il danno va liquidato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale” e che incombe sull’autore della violazione “l’onere di fornire, ai fini dello scomputo, elementi concreti di calcolo desumibili dai bilanci.

Precisa peraltro la Corte, con riferimento ai costi da scomputare dai ricavi, che ai fini della loro determinazione è possibile fare ricorso anche al metodo equitativo, a patto che la deduzione sia comunque effettuata attraverso un “calcolo plausibile” e che quest’ultimo sia compatibile con una liquidazione degli utili. Nondimeno, si rimarca, che quelli che devono essere valorizzati sono i costi cd. incrementali, cioè quelli sostenuti dall’autore della violazione nell’attività di contraffazione.

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